È proseguita ieri la fase di correzione, iniziata nella seconda parte di lunedì scorso, da parte dei mercati azionari europei, dopo il discreto mini-rally partito il 13 ottobre. La correzione per ora è modesta, va inquadrata nella categoria delle prese di beneficio e non impensierisce ancora nessuno, dato che solo una piccola parte del percorso rialzista macinato in ottobre è stata ricoperta in senso inverso.
Anche la modalità della correzione è tipica delle semplici pause. Infatti ieri si sono visti cali più consistenti in mattinata e recuperi nel pomeriggio, quando sembrava che anche Wall Street volesse ricominciare a salire, dopo un’apertura in significativo ribasso e test dei minimi di venerdì scorso nei pressi di 2.130 punti di SP500. A provocare il rimbalzo americano è stata, alle 16,30, la fiammata sul prezzo del petrolio, provocata dalle scorte settimanali di idrocarburi in USA, che hanno segnato un calo imprevisto rispetto alla settimana precedente. Il prezzo del greggio è istantaneamente decollato di oltre un dollaro (da qualcosa meno di 49 dollari al barile a qualcosa più di 50), e SP500 è passato in positivo ed ha consentito alle borse europee di chiudere, sebbene in negativo, assai meglio di come si stava mettendo in mattinata. Ha fatto eccezione la borsa italiana, che, anche grazie al rimbalzo dei bancari dopo le prese di profitto di ieri (eccetto MPS, ancora pesantemente venduta), è riuscita addirittura a chiudere col segno positivo. Ma, dopo il sussulto, il petrolio si è sgonfiato e l’ultima parte della seduta americana è tornata a presentare la consueta inedia che si percepisce da quelle parti in questo periodo, cosicché anche SP500 ha terminato la seduta in negativo.
Al di là delle oscillazioni quotidiane, che si mantengono ben al di sotto di quanto normalmente si vede in momenti di crisi, i mercati europei sembrano conservare una inerzia positiva, che consente loro di recuperare ancora abbastanza facilmente le inevitabili prese di beneficio, mentre in USA la reattività degli operatori appare appannata e gli indici sembrano colti da una svogliatezza ai limiti della patologia.
Gli investitori stanno constatando un evidente rafforzamento della congiuntura nel terzo trimestre. Lo testimoniano i dati macro relativi a settembre, piuttosto positivi, che hanno fugato i dubbi di agosto e spingono le stime degli analisti a prevedere un tasso di crescita del PIL USA del terzo trimestre compreso tra il 2,5% ed il 3% annualizzato, ovvero circa il doppio di quel che abbiamo visto nel primo e secondo trimestre. Ricordo che la prima stima ufficiale (advanced) del PIL da parte dell’ufficio statistico USA sarà pubblicata domani alle 14,30.
Un secondo aspetto che dovrebbe sostenere l’azionario è la buona performance delle trimestrali finora pubblicate, che in larga parte hanno battuto le stime sugli utili e complessivamente stanno mostrando un tasso di crescita positivo dei profitti, dopo ben 5 trimestri di utili in calo e sebbene le attese degli analisti, prima che cominciasse la stagione delle trimestrali autunnali, fossero per un ulteriore calo del 2%.
Un terzo motore rialzista dovrebbe essere la debacle di Trump in campagna elettorale e il distacco della Clinton che cresce di continuo nei sondaggi ed appare ormai incolmabile, a 7 sedute di borsa dal voto.
Ma c’è anche la parte vuota del bicchiere, che si chiama rialzo dei tassi, ormai certo in dicembre.
Lentamente i mercati stanno proseguendo a scontare tassi in progressivo rialzo e sui grafici si cominciano a vedere formazioni di modelli di inversione rialzista di medio – lungo periodo.
Ieri il decennale americano è tornato a toccare 1,8% di rendimento ed oggi dovrebbe testare il massimo di 1,82% del 17 ottobre scorso. Anche in Europa ieri si è vista una decisa impennata dei rendimenti, con il Bund che ha rivisto il rendimento segnato il 17 ottobre a 0,10%. Il nostro BTP è tornato a 1,55%, come non si vedeva da questa primavera e mezzo punto in più dei minimi di agosto.
Certo, il rialzo dei tassi fa bene alle banche. Ma non al resto dell’economia e nemmeno ai paesi emergenti, che sono indebitati in dollari e se i capitali rientrassero in USA avrebbero solo da perdere.
Insomma: il dubbio amletico tra il piacere per la crescita attuale ed il timore per quella futura ferma la mano degli operatori.
Forse è ancora presto per annunciare il rally di fine anno.
Pierluigi Gerbino www.borsaprof.it