giovedì, Novembre 21

Gli effetti collaterali della ZIRP

La settimana delle banche centrali doveva risolvere qualche dubbio ai mercati che l’hanno attesa in modo piuttosto nervoso. Il responso che martedì è stato dato, apparentemente benevolo, poiché il temuto rialzo dei tassi USA non c’è stato e la BOJ ha comunicato un grosso fascicolo di novità che dovrebbero aiutare le banche nipponiche, ha prodotto una fiammata che ha consentito ai principali mercati di rimbalzare dai supporti e riavvicinarsi ai massimi del mese di agosto.

Tuttavia la fiammata di esultanza rialzista è sembrata spegnersi venerdì, dopo solo due giorni.

Quali motivi abbiano i mercati per accantonare così in fretta i festeggiamenti, è presto detto.

La FED ha rinviato il rialzo dei tassi, ma nel farlo ha praticamente annunciato che solo eventi molto negativi potrebbero causare un ulteriore rinvio a dicembre. Quello di novembre è scontato ed ovvio, poiché sarebbe effettuato a ridosso delle Elezioni Presidenziali e costituirebbe un’ingerenza da parte di una FED già accusata di essere filo-Clinton.

Però la FED nel promettere il futuro rialzo ha anche rallentato il previsto ritmo dei ritocchi successivi ed ha abbassato ad un valore inferiore al 3% e spostato al 2019 il punto di arrivo del ritorno alla normalità finanziaria. Questo dovrebbe tranquillizzare i mercati, e così è stato, a caldo.

Ma, se osserviamo attentamente, anche qui il bicchiere è mezzo vuoto. Infatti ammettere un tasso normale inferiore al 3%, in presenza di inflazione al 2% (questo resta l’obiettivo della FED) significa ammettere che la crescita futura sarà stagnante, altrimenti un tasso del genere non sarebbe “normale” ma “accomodante”. Un tasso di crescita di lungo periodo intorno al punto percentuale non è una notizia che può entusiasmare mercati azionari ai massimi storici e reduci da un rialzo che dura da 7 anni e mezzo. E comunque un rialzo di due punti e mezzo dei tassi, da qui alla normalità, non può essere digerito tanto facilmente da mercati azionari che hanno continuato a salire benché gli utili delle società di SP500 stiano scendendo da 5 trimestri ed ormai scontino multipli P/E sull’indice SP500 intorno a 18, quando la media storica è 14.

Oltre a ciò, si è intravisto nei comunicati diramati dopo gli incontri di BOJ e FED, e probabilmente si comincerà a vedere anche nei prossimi della BCE, un allargamento della spaccatura all’interno dei consigli tra falchi e colombe. I falchi stanno crescendo ed ultimamente vengono allo scoperto anche nel voto finale. Accanto a ciò, il dibattito comincia a prendere una piega diversa rispetto al passato. Fino a poco tempo fa la discussione verteva sull’opportunità o meno di procedere a creare sempre nuove modalità di intervento per inondare i mercati di liquidità (prima i tassi a zero, poi il QE, poi i tassi negativi ed il QQE) e la domanda a cui rispondere nelle riunioni dei Consigli delle banche centrali era: “basterà?”. Falchi e colombe si dividevano tra chi voleva esagerare e chi tenere il piede dolce sull’acceleratore monetario. Ma che si dovesse accelerare era un dato scontato, e quindi la mediazione del Presidente bastava a garantire la sostanziale unanimità.

Oggi non è più così. Si sta affermando la riflessione sugli effetti collaterali della medicina utilizzata. La discussione si sposta su quanto tempo possono ancora essere mantenute misure che, sebbene non troppo efficaci sul male, stanno presentando effetti collaterali sempre più marcati. Su qualcuna, come ad esempio quella dei tassi negativi applicati sul denaro inutilizzato, depositato dalle banche presso la banca centrale, sta addirittura prevalendo l’orientamento che siano ormai insostenibili i danni in termini di aumento dei costi e diminuzione della redditività del sistema bancario. Su altre, i tassi a zero (o quasi) su tutta la curva dei rendimenti, i dubbi aumentano, anche qui per gli effetti sulla redditività di banche, assicurazioni, fondi pensione e per l’impatto negativo sulle aspettative e quindi sull’inflazione attesa.

Insomma: comincio ad avere la sensazione che le banche centrali siano ad un punto di svolta o almeno di forte riflessione sull’opportunità di proseguire con le medesime cure, aumentandone semplicemente la dose, come si è fatto finora. Siccome però non sembra che la fantasia sia al potere nelle stanze delle banche centrali, crescono le probabilità che semplicemente si ritirino, dicendo a voce un po’ più alta che tocca ai politici fare la loro parte. Per i mercati sarebbe una pessima notizia.

Questa situazione di incertezza credo che ci accompagnerà per un po’ di tempo e obbligherà comunque i mercati a cercare nell’economia reale la conferma alle proprie attese forse un po’ troppo esuberanti, poiché la rete di protezione della banche centrali non sembra più così sicura come un tempo. E crescono le probabilità che, in mancanza di notizie reali positive, si ricordino che la finestra di settembre ed ottobre è stagionalmente dedicata alle vendite.

Per questo fin da questa settimana si tornerà a guardare ai dati economici. Ce ne sono parecchi, come molti sono gli interventi di banchieri centrali, che forse aggiungeranno qualche dettaglio utile a

capire meglio che cosa bolle nelle pentole monetarie. Molto probabilmente si comincerà a mettere nei prezzi qualche aspettativa sul prossimo presidente degli USA.

Ad aiutarli, stasera (per noi europei in piena notte), forse provvederà il primo confronto televisivo testa a testa fra i due candidati, Clinton e Trump. Sempre che non scelgano di proseguire il loro confronto sul terreno del gossip e delle offese personali.

Pierluigi Gerbino www.borsaprof.it