I mercati attendevano ieri il comunicato FED con grande speranza, ma, come spesso accade, la montagna ha partorito il classico topolino. Anche la FED, come già Draghi la scorsa settimana, è sembrata implicitamente ammettere che le paure sugli effetti recessivi immediati della Brexit, seminate prima del voto inglese, forse per condizionarne l’esito, da tutte le autorità politiche e monetarie del mondo, erano una bufala. Infatti nel comunicato di ieri, che ha ovviamente lasciato immutati i tassi, non se ne accenna nemmeno. Anzi, si accenna ad una diminuzione dei rischi di breve termine per le prospettive economiche e ad un rafforzamento dei consumi delle famiglie USA. Possiamo quindi classificare il tenore del messaggio come un annuncio di probabile ritorno alla normalità che si viveva nell’autunno scorso, prima che la turbolenza cinese prima e quella assai breve, ma intensa, del voto inglese poi, turbassero all’apparenza i sonni dei principali banchieri centrali.
Ed allora, sulla falsariga di Draghi, che si è rimangiato le promesse di intervento monetario di emergenza, dato che l’emergenza si è rivelata niente più che un incubo notturno della notte del 23 giugno scorso, anche la FED è tornata ad ammettere le possibilità di una ripresa del rialzo dei tassi entro fine anno, cosa che un mese fa nessuno più considerava possibile.
Ma la tempistica e le stesse probabilità che la cosa si realizzi sono state lasciate volutamente molto nel vago, anche perché ieri non era previsto il botta e risposta con i giornalisti per spiegare il senso delle affermazioni stampate sulla carta del comunicato ufficiale.
Il mercato ha percepito che il sentiment all’interno del FOMC sta cambiando verso un ritorno ad una maggiore aggressività, ma senza quell’urgenza di smontare le operazioni rialziste in poco tempo. Per cui il risultato è stato un moderato calo dell’indice SP500, che ha chiuso a metà strada tra il massimo (2.175) ed il minimo (2.160) della congestione che intrappola il mercato azionario USA da 6 sedute e che sta deteriorando il momentum rialzista dell’impulso iniziato dopo il referendum inglese.
Solo una stagione delle trimestrali che si conferma, almeno per ora, assai migliore di quanto prevedessero i depressi analisti, forse anch’essi influenzati dalle allarmate ingerenze di politici e banchieri centrali, ha salvato il mercato da una correzione che il buon senso richiederebbe.
Del resto è abbastanza comprensibile che i compratori, che hanno comprato senza risparmiarsi nella speranza di forti stimoli monetari da parte dei banchieri centrali di Europa e Giappone ed in una sostanziale benevolenza della FED, che avrebbe dovuto lasciare i tassi fermi per tutto l’anno, ora siano tentati di portare a casa i guadagni prima delle ferie, osservando che Draghi ha dimenticato le promesse, la FED è tornata ad ipotizzare un ritocco dei tassi entro l’anno e persino la BOE, che avrebbe più di tutti i motivi per abbassare i tassi, per ora ha rinviato. L’ultimo appiglio per i rialzisti ad oltranza è Kuroda, che domani riunirà il direttorio della Bank of Japan. Dopo che ieri Abe ha galvanizzato l’indice Nikkei, promettendo un piano di spesa pubblica da 270 miliardi di dollari, cosa che ha messo di buonumore i mercati azionari europei fino a quando la cautela di Wall Street non li ha convinti a tirare un po’ il freno nel finale di seduta, Kuroda potrebbe mettere la ciliegina sulla torta potenziando le misure di espansione monetaria. Ma il capo della BOJ è abituato a non fare quasi mai quel che ci si attende.
Dal punto di vista grafico ieri abbiamo avuto il completamento del recupero dei valori pre-Brexit da parte dell’indice tedesco Dax. Nel momento di massima euforia pomeridiana il Dax è tornato a testare quota 10.350, che rappresenta un’area di forte resistenza, poiché è il punto di massimo raggiunto il 31 maggio ed il 23 giugno, mentre gli inglesi votavano. In entrambi i casi il mercato fu respinto con violenza, al punto da andare a rompere i precedenti supporti. Anche ieri le vertigini hanno prodotto uno storno momentaneo, che oggi potrebbe essere confermato da ulteriori discese, se gli investitori europei si convincessero a tirare i remi in barca. Superfluo ricordare la valenza che avrebbe invece il superamento di quell’area, che spingerebbe immediatamente a testare il massimo del 2016, segnato a 10.474 il 21 aprile. Anche il nostro Ftse-Mib ieri ha passato la giornata al rialzo, trainato dalle speranze che gli stress-test che usciranno domani a tarda sera, boccino solo MPS. Nel momento di massima euforia ha provato anche ieri ad uscire al rialzo dalla lunga congestione che lo intrappola, arrivando a lambire quota 17.000. Ma nel finale, anch’esso ha restituito parte dei guadagni ed è rientrato all’interno del trading range, riuscendo comunque a mantenersi tra i migliori indici europei di giornata. Sono salite le banche, ma anche qualche altra società che ha pubblicato le trimestrali, tra cui Telecom Italia e STM, mentre la trimestrale di Fiat Chrysler, nonostante i numeri
positivi, non è stata apprezzata. MPS, che ha presentato alla BCE il piano di risanamento, non è stata bocciata dal mercato, ma non ha nemmeno entusiasmato, dato che posizionata tra le banche che sono salite di meno. L’unica banca che ha sofferto anche ieri è Unicredit, che ha scontato l’interruzione delle trattative con Santander per la cessione della controllata Pioneer. Un ostacolo imprevisto e soprattutto un mancato introito, che rende più complicato il rafforzamento e forse potrebbe aumentare il calibro dell’aumento di capitale prossimo venturo.
Pierluigi Gerbino www.borsaprof.it